A Ponza la festa della Pasqua, nella prima metà del secolo scorso, aveva dei riti solenni e suggestivi.
Nella chiesa parrocchiale della SS. Trinità sul fare della sera del Mercoledì Santo si svolgeva la cerimonia della simulazione del terremoto per ricordare il momento più drammatico della Passione: la crocefissione e morte di Gesù.
Il giorno dopo, il Giovedì Santo, iniziava il triduo pasquale. L’Altare Maggiore veniva coperto con una tenda viola, a mo’ di sipario, e anche i santi nelle nicchie venivano oscurati con i drappi del lutto, mentre venivano legate le campane. Un crocefisso di medie dimensioni veniva adagiato ai piedi del Sepolcro, allestito nell’altare dell’Addolorata; accanto un tappeto di germogli di grano sistemati a forma di croce. Ai lati, contrapposti, si fronteggiavano due inginocchiatoi sui quali prendevano posto, genuflesse e oranti, le “Figlie di Maria” che si alternavano ogni ora nella guardia al Sepolcro, per l’Adorazione della Croce. Vestivano gli abiti del lutto, con tulle nero in testa; al collo il medaglione della Congrega dell’Addolorata.
I fedeli rendevano visita al Sepolcro inginocchiandosi e baciando il Cristo a terra. La visita veniva poi estesa ai Sepolcri allestiti nelle chiese di S. Maria e di Le Forna, raggiunte naturalmente a piedi e in orario diurno.
Un chierichetto, girando tra i vicoli del paese, suonava un cupo campanaccio per annunciare l’inizio delle funzioni del triduo pasquale.
A mezzogiorno sul sagrato della Chiesa, in Coena Domini, veniva rappresentato il memoriale dell’Ultima Cena, con la tradizionale lavanda dei piedi. Veniva imbandita una tavola lunga con una bianca tovaglia e dodici tortani di pane da 2 kg., uno per ogni apostolo. I 12 apostoli erano dei figuranti provenienti dalle varie contrade dell’isola, soprattutto dagli Scotti e dai Conti; vecchi canuti con barba incolta. Alla fine della cerimonia avevano il privilegio di portarsi a casa il tortano, per la gioia dei familiari e l’invidia degli astanti, data la grande povertà in cui versava l’isola in quegli anni.
La mattina del Venerdì Santo il Crocefisso veniva rimosso e la statua di Gesù morto posta al centro della navata, con accanto l’Addolorata, anch’essa rimossa dalla sua nicchia. I fedeli, contriti e penitenti, si recavano a baciare il Cristo e la Madonna.
Alle 11 veniva celebrata la Messa Secca, chiamata così perché priva della funzione eucaristica. Il sacerdote officiava calzando una sola scarpa e, appunto, senza somministrare l’Eucarestia, perché Cristo era morto.
Sul fare della sera, dopo che era stata suonata la ritirata per i confinati politici, iniziava la processione. Gesù avanti e la Madonna dietro, e insieme sfilavano per la Parata, passando davanti al padiglione (oggi scuola elementare) ove erano rinchiusi i confinati, che per vedere sfilare la processione si arrampicavano alle grate delle finestre. Nel piazzale di Linda Verde (Hotel Bellavista) gli abitanti del quartiere accendevano un focaraccio con pennecilli e avanzi di falegnameria.
Poi la processione attraversava Corso Umberto I°, gli Scarpellini, la piazzetta della Punta Bianca, infine S. Antonio; raggiunto il tunnel di Giancos faceva ritorno in Chiesa. A quel tempo non era prevista la sosta per la predica.
Altri falò venivano accesi sugli Scotti, a S. Antonio, sopra Giancos e a Frontone. Nelle campagne i contadini ne preparavano uno fuori casa, in onore del Cristo morto.
Giunti in chiesa Gesù e la Madonna venivano riposti nelle loro nicchie e nuovamente oscurati coi drappi viola.
Nel 1939, con l’arrivo del giovane parroco don Luigi Maria Dies, con sapiente regia la processione venne sdoppiata per incrementare lo struggente pathos della Passione: il corteo con la Madonna procedeva per la Parata, mentre quello del Cristo sfilava per corso Pisacane, per incontrarsi suggestivamente alla Punta Bianca. Qui il parroco dal balcone della casa di Luigi Pacifico, detto Bafarone, teneva l’ardente sermone contro i perfidi giudei, mentre l’effetto scenico dell’incontro tra Madre e Figlio toccava i cuori.
Quando crollò il Corso Umberto I°, agli inizi degli anni Sessanta, non potendo più la processione percorrere quel tratto, la Madonna Addolorata, nella calma di mezzogiorno del Venerdì Santo, veniva prelevata furtivamente dalla chiesa e attraverso il Corridoio portata al Canalone, in casa di Ersilia Conte, presidente del Sodalizio dell’Addolorata.
Qui la Madonna veniva tirata a lucido e adornata con un cuscino di calle, le cosiddette “donne in camicia”, coltivate amorosamente da Maria Picicco. Erano addette alla preparazione della Madonna dodici vergini della congrega dell’Addolorata. In processione le vergini si schieravano davanti alla Madonna, simmetricamente, sei nella fila di destra e sei in quella di sinistra, con in mano un cero acceso protetto da una palla di vetro bianco-latte. Le vergini erano vestite di nero con al collo il medaglione con l’effigie dell’Addolorata. Gli uomini portavano a spalla la statua della Madonna; seguivano in processione tutte le donne del vicinato, provenienti dagli Scotti, dal Canalone, dalla Dragonara.
La processione si snodava per i ripidi scalini degli Scarpellini e sboccava nella Piazzetta della Punta Bianca, dove incontrava Cristo morto.
Il Sabato Santo era il giorno più atteso, il giorno della Gloria. Durante la messa solenne, al momento della Gloria, veniva tirato giù il tendone, scoprendo così – per la meraviglia dei numerosi fedeli – l’Altare Maggiore, illuminato dalle candele accese e addobbato con germogli di grano bianco. Nella parte alta dell’Altare era posta la statua di Cristo risorto, e mentre il parroco faceva la solenne ostensione, l’organo intonava il Gloria e le campane suonavano a storno. Simultaneamente anche i santi venivano scoperti, mentre adulti e bambini tiravano fuori dalle tasche gli uccellini che liberavano nell’aria. Il frullo dei “petravuozzoli”, delle “cotrosselle”, dei “cotajanculi” e dei “crastechi” animava la chiesa e rendeva l’effetto scenografico irresistibile, che riempiva i cuori di gioia intensa.
Gli uccellini erano stati catturati vivi con l’arciuolo nei giorni precedenti e conservati per l’occasione; soprattutto i “crastechi” (le averle) si dimostravano resistenti alla cattività e all’attesa.
L’effetto di questa toccante funzione sui cuori dei fedeli era enorme, stupefacente.
La domenica mattina si celebrava la messa solenne della Pasqua di Resurrezione e poi tutti a casa per il grande pranzo pasquale. Si preparava la pastasciutta, spesso gnocchi con sugo di gallo; per secondo, coniglio asciutto-asciutto; polpette di uccellini tritati con le uova, oppure al sugo, oppure alla cacciatora; vino di produzione locale, pane fatto in casa. Il contorno non era previsto. Infine il sospirato casatiello, preparato nei forni infuocati nei giorni precedenti, che veniva mangiato con le fave fresche dell’orto, quindi la pizza rustica e la pastiera. Tutto fatto in casa. Non tutte le famiglie però potevano permettersi la pizza rustica, in quanto richiedeva ingredienti costosi che solo in pochi potevano permettersi.
Per i bambini venivano preparate le uova sode colorate. Si prendeva della stoffa o della carta colorata (il rosso era preferito) e si immergeva in un recipiente d’acqua e una volta rilasciato il colore si faceva bollire. Poi si lasciava raffreddare, quindi vi si immergevano le uova crude e si riavviava il fuoco, affinché si rassodassero e si tingessero. Era quello il dono che le mamme il giorno di Pasqua consegnavano ai bambini che attendevano con ansia; i quali erano ben felici di conservarne alcune per la scampagnata di Pasquetta.
Il giorno del Lunedì in Albis, il parroco iniziava la visita in tutti i quartieri dell’isola per la benedizione delle case. Era accompagnato da un chierichetto che portava il catino con l’acqua santa e un cesto per raccogliere le offerte. In genere si donavano uova, asparagi e uccelli. Raramente soldi, pochi centesimi.
La Pasquetta a quel tempo non era molto sentita. I contadini continuavano normalmente i lavori nei campi, senz’altra distrazione. Gli abitanti della zona del porto si recavano generalmente sul “piano di Iole” per la tradizionale scampagnata.
Terminava così la Settimana Santa e l’isola riprendeva il suo lento corso, scandito dalle prossime festività religiose e da un’umanità che non c’è più.
Gino Usai