di Sandro Russo
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La Morte nell’Horcynus. Opposta alle fere – e loro mortale nemico – è l’Orca (Orcinus orca) che nella trasfigurazione romanzesca di D’Arrigo – già dallo stesso nome ‘Horcynus Orca’ – ha poco o nulla dell’animale marino reale. Già dalla sua prima apparizione, mentre si ridesta negli abissi:
“La sua mente si smuoveva dal sonno di roccia, avvolta in nebbie fitte, in nuvolosità nere fumose, il suo corpo immenso andava spostandosi nelle tenebre sterminate, impenetrabili dell’abisso, entro cui combaciava con le grasse scannellature e i grumi di sangue nero, nero come di pece, per tutta la sua terrificante, alta e lunga grossezza, come in un fodero di velluto nero, l’enorme mole affusolata andava spostandosi con possente, inesorabile lentezza: il fenomeno di natura fatalmente aveva inizio, fatalmente si muoveva al suo fine. Dagli sprofondi abissali veniva un rimbombo spento come il rotolìo di un tuono per quelle fosse e montagne sottomarine, e il mare alla superficie si scuoteva tutto.” (p. 721).
Essa è la figurazione della Morte stessa:
“La misdea si attaglia all’Orca come alla stessa Nasomangiato, anzi meglio, perché mentre quella, la Nasomangiato, non è un essere di carne e ossa, è un proforma della Morte, l’Orca invece, per tutto il suo sconfinato regno e sdiregno marino, è la Morte viva, al vivo, essere vivente di cui non si ha altra scienza se non quella, che è essere, l’essere che ammazza, sterminia, se non che quello è l’essere che dà la morte, è ovverosia l’essere che passa per la Morte.” (p. 723).
È anche il momento in cui l’usuale corrispondenza tra la descrizione fisica delle creature marine, vivida e realistica nel caso delle fere, viene sopraffatta dalla dimensione fantastica – visionaria e simbolica – dell’essere.
Ma tutto il romanzo è una grande allegoria – ovvero una metafora continuata e strutturata – della Morte; la messa in scena di un mondo in corruzione… Ha scritto Poe (1809-’49), che D’Arrigo ben conosceva (come pure conosceva e ammirava Melville): “Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte”.
Il disfacimento e la rovina dell’Orca – per la putrefazione dell’enorme ferita al fianco, fino alla terribile vendetta messa in atto dalle fere – sono quelli dell’intero mondo.
I cambiamenti che ‘Ndrja ritrova al suo ritorno alla terra natale non riguardano solo il paesaggio, devastato dalle ferite della guerra, ma anche le persone, gli stessi pescatori, trasformati in speculatori; divoratori e commercianti di fere.
Il nome Orca era stato dato a questi animali già dagli antichi Romani, ed è riferito genericamente a balene, grandi pesci o mostri marini. L’aggettivo orcino significa invece demone proveniente dall’inferno. Notare le macchie bianche sul corpo e lo sfiatatoio alla sommità del capo
Ancora un’orca in immersione, con la coda (piatta) ben in vista.
Attualita’ dell’Horcynus. L’allegoria di un mondo in disfacimento – nei suoi aspetti materiali ed etici – dopo la catastrofe della guerra è del tutto attuale, trasferibile con minime variazioni ai tempi che viviamo.
D’Arrigo focalizza un segno di cambiamento nella ‘stretta di mano’, negata dagli altri pellisquadre a Caitanello (il padre di ‘Ndrja – Ndr) dopo un’impresa che lui reputata eroica:
“Eh sì, l’uomo se la mise sotto i piedi la stretta di mano. La guerra prima di ogni altra cosa, pigliò di mira quella, la stretta di mano, per prima quella fu messa a ferro e fuoco, il massacro da lì cominciò. Ve lo ricordate? E chi osava la stretta di mano? chi s’ardiva ?
Io, voi, noi tra di noi, insomma, che ci fidammo sempre l’uno con l’altro e non ebbimo mai bisogno di darci l’alt e di fermarci a tre passi di distanza con la mano alzata in avanti nel saluto fascista, né di metterci la mano a parocchio nel saluto militare come se ci perlustrassimo controsole e ci spiassimo in faccia l’uno che intenzione aveva l’altro.” (p. 619).
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Però… Malgrado tutto questo parlare di delfini e fere non ero di un passo più avanti nella risoluzione di un mio antico dubbio: la contraddizione tra l’immagine delle fere come le avevo conosciute dai racconti d’infanzia, amichevoli e gioconde, e l’altra, pure presente nell’Horcynus, di bestie ingannevoli e maligne.
Un lampo di luce è venuto per caso, come spesso succede…
Ci si ritrova un giorno – neanche troppo tempo fa – a parlare di pesca e di vecchie tradizioni, di delfini e di fere, con vecchi amici, qualcuno figlio di pescatore o pescatore egli stesso (… il mare è quello che conosciamo, e la persona in questione è delle Forna – N.d.R.).
È stato allora che uno del gruppo ha raccontato la sua esperienza diretta con le fere, un argomento che aveva appassionato anche lui…
– Perché, è vero – ha detto – delle volte trovavamo le fere, ma erano del tutto disinteressate a noi, e la pesca per cui eravamo partiti (quella ‘a castardelli’ – N.d.R.) finiva prima di cominciare. Altre volte invece, tra salti e volteggi, ci accompagnavano sul branco e collaboravano attivamente. Troppo strane queste differenze… Così aveva studiato e chiesto a pescatori più anziani e infine era riuscito – a suo dire – a svelare l’enigma.
È che si tratta di delfini di specie diverse …
Una stenella (Stenella striata o S. coeruleoalba). A fianco, il pesce volante (o pesce rondine), piccolo pesce osseo della famiglia degli Exocoetidae.
La stenella è un piccolo delfinide di corporatura slanciata e rostro ben evidente, con una stria scura che parte dall’occhio e percorre il fianco dell’animale in senso longitudinale. La colorazione è grigio ardesia sul dorso e bianca sul ventre, con una pennellata chiara che risale il fianco in direzione della pinna dorsale. Pare che le stenelle non siano attratte dai castardelli; il loro cibo preferito è il pesce rondine, di scarso interesse per i pescatori.
Sono i tursiopi invece, quelli a cui i racconti della nostra infanzia si riferivano…
Il tursiope (Tursiops truncatus) è forse il più conosciuto e socievole dei delfini; comune negli acquari perché è una delle rare specie che sopportano la cattività. È ghiotto di ‘castardelli’ (Scomberesox saurus saurus), un pesce azzurro molto simile alle aguglie
Singolari questi incontri di gruppo, conversari o ‘purparlè’, in cui – per dirla ‘alla D’Arrigo’ – il ‘visto con gli occhi’ di qualcuno si collega al ‘sentito dire’ di altri, e tutti ‘vedono con gli occhi della mente’, in quei rari momenti di sospensione dell’incredulità propria delle storie ben raccontate. Fu proprio in quell’occasione – dal racconto di un’amica, figlia di un pescatore che la portava bambina con sé – che tutti riuscimmo a immaginare ‘u lamp’ (il lampo).
Tra l’altro, è stato proprio da questi incontri, e da altri della stessa natura in sedi diverse, che è nata e ha preso forma l’idea del sito ponzaracconta (N.d.R.).
Quando nel corso di una pesca notturna un enorme branco di pesci raccolto in una baia – lei si riferiva ai palamiti o tonnetti (Sarda sarda, della famiglia degli Sgombridi) – cambia direzione nello stesso istante. Allora il riflesso della luna, o la bioluminescenza del mare, trasmette un chiarore improvviso dal profondo che fa saltare il cuore in petto ai pescatori (…e alle bambine che ancora lo ricordano con la stessa emozione, a decenni di distanza!).
E sempre all’Horcynus torniamo con i pensieri; al vasto mare notturno, agli echi che esso suscita nella nostra memoria, quando la fantasia si libera e fluttua nella corrente, lieve…
“Allo scuro si sentiva lo scivolìo rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.” (p. 1257)
Sandro Russo
[Ragazzino dell’isola e le fere. Il ‘mio’ Horcynus Orca 5. Fine]
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– Le foto del parto del delfino sono state tratte dal web; vai a questo link
– Le citazioni dal romanzo, nel testo e nelle didascalie, sono tratte dalla prima edizione di Horcynus Orca: Mondadori, gennaio 1975