di Sandro Russo
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“Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.”
[L’incipit del romanzo di Stefano D’Arrigo, nella 1a ed. Mondadori, gennaio 1975]
All’inizio si fa fatica ad orientarsi, in un mondo di parole e di immagini, di entità sconosciute e di simboli.
L’ambiente che si credeva di conoscere e che sembrava così reale, si fa indistinto; un linguaggio pieni di rimandi, che non si riesce a comprendere appieno. Il mare e le sue rive – i pescatori, le donne, gli stessi pesci – hanno nomi e comportamenti inconsueti, inesplicabili…
Chi si avvicina a quella terra, chi si addentra nel romanzo, si accorge presto di essere entrato in un mondo fluttuante; la narrazione è fin dall’inizio, nella presentazione dei luoghi – un tratto di costa e il mare dello scill’e cariddi -, insieme reale e fantastica:
“Qualcosa, in Sicilia, che per la coloritura violacea riflessa dall’acqua sembrava una grande troffa di buganvillea pendente sulla linea dei due mari, brillò per un attimo dal mezzo della nuvolaglia e poi il brillìo cessò e lo seguì un risplendere breve breve e bianco di pietra, e allora, nel momento in cui spariva nella fumèa, riconobbe lo sperone corallino che dalla loro marina s’appruava, quasi al mezzo, per spartirli, fra Tirreno e Jonio”. [dalla seconda pagina del romanzo; p. 8 della 1a Ed. Mondadori 1975]
“Fata Morgana disarticola la visione; allontana e avvicina la costa in un barbaglio di luce che sembra vero e invece è un miraggio” (Tea Ranno) – [Foto di Simona Bonanno]
È come entrare in un paese straniero. Le cose che si vedono intorno hanno sicuramente un senso, ma in un contesto e in una lingua che non si riescono ad afferrare.
Si entra nel libro di D’Arrigo con chiavi diverse; ciascuno riesce a focalizzarne solo una piccola parte, in relazione a suoi interessi e conoscenze. E quel che attira – si capisce ‘a posteriori’ – ha radici profonde in noi stessi, nel passato e nei ricordi.
Così è accaduto per tutti coloro che, per qualunque via, al libro si sono avvicinati; perché quasi senza avvedersene – man mano che si procede nell’esplorazione dei luoghi e ci si addentra nel romanzo – si è soggiogati; presi nella rete del senso dell’insieme.
Si accede all’opera per un suggerimento ascoltato tempo prima e lasciato sedimentare; per una pagina letta per caso o un personaggio che aveva incuriosito. Qualcuno attraverso la lingua, che suona familiare, per certe risonanze profonde; qualcuno attratto da suggestioni marinare: un particolare barbaglio di luce sull’orizzonte; la luminescenza del mare di notte, una spiaggia deserta a perdita d’occhio, disseminata di relitti e di ‘fere’ morte. Un inconsueto modo di raccontare, per associazioni e rimandi, attraverso un ‘flusso di coscienza’ mai conosciuto in quella forma.
Per me è stato l’esperienza di vita sull’isola, infanzia e adolescenza vissute – per i quattro mesi che durava la mia lunga estate – tra mare e cielo; così simili all’isola e al mare di fantasia di cui scrive D’Arrigo.
Ha contribuito alla curiosità sul romanzo, anche la travagliata e del tutto unica vicenda editoriale del libro, che con il titolo “I fatti della fera” fu consegnato all’editore (Mondadori) nel 1961. Ritirato dall’Autore “per correggerne più rapidamente le bozze” fu rimaneggiato per ancora 14 anni (!). Arrivò alla pubblicazione nel gennaio ’75 con un altro titolo – “Horcynus Orca”, appunto – e un numero di pagine quasi doppio (1257!) rispetto alla prima stesura.
Le diverse edizioni di un libro tuttora difficile da trovare. In ordine cronologico di pubblicazione: l’edizione Mondadori del gennaio 1975; Oscar Mondadori 1982; Rizzoli, ottobre 2003. “I Fatti della Fera”: Rizzoli, 2a edizione, 2009 (la 1a Ed. è del 2000)
Confesso di essere stato preso dal libro, aggregato ad un universo di coordinate comprensibili, solo a partire dall’episodio (p. 91) che introduce quei gran personaggi che sono per D’Arrigo ‘le fere’…
“…quell’uomo, uno scardellino alto un palmo… (…) che veniva in sopra dalla riva, tirando per le redini di corda un cavallone bianco… (…) …e sulla groppa, per tutta la lunghezza tra criniera e coda, c’era come un ammasso brunastro e sgocciolante che gli parve sagomato ad animale marino, però che specie d’animale non gli fu chiaro subito. (…)
– Ma che portate a st’ora di mattino?
– Là, vedete, porto acqua di mare che s’usò sempre purgativa… (…)
E là, vedete, quel lordume di carne, quella è una fera che porto, pescebestino, con rispetto parlando, pesce immangiabile in altre parole, perlomeno in tempo di pace: barbaro animale, capriccioso e pestifero, ma forse a voi che non siete del mestiere, vi viene a sconoscere come fera e la conoscete invece come delfino, eh?”
Compare qui per la prima volta una delle figure fondamentali del romanzo: la fera o il delfino. Ma sono lo stesso animale? Molte pagine dell’Horcynus sono dedicate alla questione, con argomenti a favore e dotte confutazioni. Di qui in avanti esse – le fere – dilagano (p. 95 e segg): ne riparleremo. Intanto la visuale si allarga. Al mare di notte…
Il passaggio notturno, in mare, delle fere: “…si era risvegliato con l’impressione che lì davanti, rivariva, passassero dei naviganti sciroccati che andavano aggiornando, facendo conversario sul ponte con grande parlantina, e gettandosi l’un l’altro versetti lagnosi e gridandosi un po’ a lacrima e un po’ a riso.”
…Si estende alla spiaggia, disseminata di cadaveri di fere e di relitti …
“…l’aria, tutta riflessi e barbagli, pareva ardervi intorno, scheggiata e misteriosa e le carcasse, con quello stesso rifiato di fuoco dell’aria, sembravano trasmettere come un messaggio in quella solitudine, significare qualcosa
…perché anche da morta la fera mantiene la sua smorfia beccuta, maligna e sfottente, come la mantiene per la mirìa di facce che fa da viva… “La fera è già carogna da viva a mare, e figuratevela morta e arenata”.
“Di queste carogne ce n’era di fresche ancora e di vecchie stantive, spolpate fino all’osso da cani e uccellaci di passo, asciugate dal sole e rilucenti di sale.”
Ma le fere sono più spesso descritte da vive; e in che modo vive!
“Dovete sapere che prima, per questi paraggi, non l’ebbimo mai il bene di vederla morta, la fera, ma sempre e solo viva, e viva, poi, che non si contentava di essere solo viva ma viva vitaiola, che faceva la gran vita, che sarebbe divertimento e sterminio: perché capite, arrivando qua, cadeva nell’oro, pesce ne trovava d’ogni grandezza e sapore… (…) che le usciva dagli occhi. Che bisogno aveva, dopo che s’addobbava come una troia, di venirci a rovinare le reti a noi? Nessun bisogno, bisogno solo della sua natura barbara”.
Da quelle pagine – da quella spiaggia – sono stato irreversibilmente agganciato alla storia; forse per aver tanto fantasticato delle fere; certo anche per aver conosciuto da vicino un vero pellesquadra.
I pellisquadre di Cariddi, pescatori d’esperienza, rotti a ogni tempesta, cosiddetti perché hanno la pelle come lo ‘squadro’, cioè lo squalo, che in dialetto prende il nome da ‘squadrare’, ovvero lisciare e pareggiare il legno ruvido con la cartavetrata; pelli, quindi, come carta-vetro. E come le pelli, i caratteri.
Su quel mondo in cui i bambini, ‘i muccuselli’, avevano le fere come compagne di giochi, avevo molto fantasticato anch’io, a partire dai ricordi d’infanzia dello zì Umbertino…
Un universo sensoriale, profumi, sapori, storie sentite raccontare, che noi, vissuti su un’isola in una certa epoca, ancora lontana dalle contaminazioni successive, ben ricordiamo; come pure le suggestioni della lingua e certi modi di dire; tutta una sensibilità isolana, che gli abitanti di Ponza e quelli di Sicilia, da rive (neanche troppo) lontane dello stesso mare, da secoli spartiscono…
(Ragazzino dell’isola e le fere. Il ‘mio’ Horcynus Orca. 3. Continua qui)