di Sandro Russo
Per la prima parte dell’articolo: leggi qui
Le tempeste descritte da zì Umbertino erano così vivide come solo il ricordo di un marinaio che le ha affrontate e patite può rievocare. C’erano dentro il terrore dell’abisso, la disperazione; e insieme la necessità di tenersi a qualunque appiglio, perché, diceva: …Per mare, non ci stanno taverne.
Mi raccontava di una tempesta terribile… Onde mai viste, fulmini e ‘acqu’i’ ciel’ – così, tra tante acque, i marinai chiamano la pioggia – quando, alle brutte, il comandante ordinò di filare di poppa, ovvero di mettere in mare sulla scia della nave, l’immagine del santo protettore. Come fu, come non fu, la tempesta pian piano si calmò e anche quella volta… ’a putèttem’ raccunta’..! (la potemmo raccontare).
‘Il Negro del Narciso’ (The Nigger of the “Narcissus”; 1897) contiene la descrizione di una delle più perfette tempeste che si possano leggere. ‘Tifone’ (Typhoon and Two Other Stories) è del 1902
Le tempeste perfette, quando le ho ritrovate nei libri di Conrad, avevano già le immagini e il contenuto emotivo che ricordavo da quei racconti.
Da buon pescatore lo zi’ Umbertino praticava ogni tipo di pesca che desse qualche risultato; anche una che a me – ragazzino romantico ai primi turbamenti – sembrava troppo crudele… La pesca alle seppie si faceva trainando una seppia femmina viva legata ad una lenza, come esca per il maschio. Questo, una volta che ha aderito, non si stacca; la lenza viene recuperata lentamente, fino a che le due seppie non sono issate a bordo. Quindi la femmina è ributtata in acqua.
L’attrazione sessuale tra la seppia maschio e la seppia femmina (difficili da distinguere tra loro, in realtà), che viene sfruttata nella pesca cosiddetta ‘alla ruffiana’
Un’altra volta, tirando via i pesci da una rete, mi punsi con una tracina. È un dolore molto intenso, profondo, che parte dalla sede della puntura – la mano quella volta – e si irradia per tutto il braccio fino all’ascella.
– N’è pau’ (Non aver paura) – mi disse zi’ Umbertino e mi consigliò di urinarci sopra. L’acqua calda (la più calda che si possa tollerare) attenua il dolore perché la tossina è termolabile… Scoprii dopo! Quella volta funzionò, credo, per l’imbarazzo, la diversione dell’attenzione e l’impossibilità di piangere o gridare.
La tracina (Trachinus traco) va districata con estrema attenzione dalle reti. Il veleno diffuso attraverso le sue spine dorsali è estremamente doloroso, anche se di breve durata e non pericoloso per la vita
Ma quella rassicurazione, fatta con le stesse precise parole: – N’è pau’! – mi restò impressa nella memoria e la ritrovai, anni dopo, in un’altra storia di mare: quella raccontata da Erri De Luca in ‘Tu, mio’.
La formazione di un ragazzo nella Ischia degli anni ’50, nel romanzo di Erri De Luca (Feltrinelli, 1992). Tra i turbamenti adolescenziali e le ombre della guerra da poco trascorsa, l’apprendistato e l’amicizia di un ragazzino con un pescatore locale
Nella stessa dimensione – tra il fantastico e la realtà più vivida – zì Umbertino mi parlava delle ‘fere’, che nella sua memoria erano legate quasi ad un’età dell’oro, ad una ‘epoca geniale’ in cui il sodalizio tra gli uomini e le creature del mare non si era ancora interrotto.
La memoria di un affiatamento tra gli uomini e le creature del mare è presente in varie culture: qui l’immagine di un’antica piastrella greca, riportata in un film del 1957: “Il ragazzo sul delfino” (Boy on a dolphin), di Jean Negulesco, con una giovanissima Sophia Loren
– ‘I’ffère’ – diceva lui – Le fere, i feroni… E tanto fantastici erano quelle creature e i suoi racconti, che all’inizio neanche avevo capito che parlava dei delfini…
Nell’isola, quando lui era piccolo, le fere erano molto numerose; era il gioco dei ragazzini del tempo – peraltro avaro di distrazioni per tutti – stabilire un rapporto con esse, chiamarle e farle accorrere con un fischio…
Sosteneva zi’ Umbertino, che una delle pesche più diffuse a quel tempo, quella dei castardelli, si potesse fare esclusivamente con la collaborazione delle ‘fere’, che assecondavano i pescatori nel raccogliere i pesci ‘in pallone’ e dirigerli nelle reti. Se capitava che una fera rimanesse impigliata nelle reti, veniva ributtata in mare, ma con un piccolo segno di coltello sulla pinna dorsale, per poterla riconoscere in seguito…
‘Le fere’ raccontate da zì Umbertino erano animali amichevoli e giocosi, che collaboravano con i pescatori per alcuni tipi di pesca
Ero impastato di mare e di storie di mare. Tra isole vere, isole del tesoro e isole misteriose, vivevo di Stevenson e Giulio Verne. E prima di tutti gli altri, di ‘Moby Dick’ – l’edizione per ragazzi del gran romanzo enciclopedico di Hermann Melville (1851). Poi anche un film, cui assistetti con ammutolita devozione.
Locandina del film “Moby Dick, la balena bianca” di John Houston (Usa; 1956) con Gregory Peck (il capitano Achab) e Richard Basehart (Ismael)
Più tardi vennero le storie di Conrad – introdotte da ‘Lord Jim’ [V. su “O”: “Storie dentro altre storie” del 02.03.08] – di cui letta una si vogliono conoscere tutte le altre…
Comunque, era questa la situazione – esperienze, fantasie e ricordi – quando sul mio mondo, parecchio tempo dopo, cadde come una bomba Horcynus Orca, di Stefano D’Arrigo…
[Ragazzino dell’isola e le fere. Horcynus Orca.2. Continua qui]