di Emilio Iodice
Nessuno avrebbe potuto immaginare che l’Italia si sarebbe imbarcata in una nuova avventura di guerra dopo le terribili sofferenze patite nella prima Guerra Mondiale. Del resto l’indifferenza e l’arroganza dei politici a causare morte e distruzione nei confronti della loro gente sembrano a volte non avere limiti. Questo fu il caso dei fascisti in Italia che spinsero il paese e Ponza ad entrare nel peggior conflitto armato che il mondo avesse mai visto.
Durante la seconda Guerra Mondiale, Giovannina dovette affrontare l’esilio, l’isolamento e la fame a Ponza, un masso nel mare pieno di bellezze ma privo del necessario per vivere. Lei che era nata e cresciuta lì, la conosceva bene. Da bambina aveva imparato a cucire, fare a maglia, pescare e coltivare. Sapeva come fare per permettere a lei e i suoi figli di sopravvivere.
Forse la Provvidenza l’aveva resa prigioniera di Ponza affinché lei aiutasse la sua famiglia e i suoi amici a far fronte alle difficoltà causate dalla più grande tragedia che l’Italia avesse mai fronteggiato. Ma anche Giovannina, con tutto il suo sveglio coraggio e modi intelligenti di affrontare i problemi della vita, non potè che subire la carestia e l’inedia, assurde e ottuse, della gente indifesa.
Per trenta mesi Ponza fu tenuta in quarantena, da aerei, navi e sommergibili – degli alleati prima, e degli stessi nazisti poi – che costrinsero i pescatori e i marinai a non allontanarsi dalle aride colline e dalle terrazze dell’isola. Essi cercavano di pescare di notte o durante le prime ore del mattino, prima dell’alba, sempre a rischio di colpi d’artiglieria. Il risultato fu che la piccola isola con migliaia di anime non potette contare per il suo sostentamento sull’unica risorsa che aveva a disposizione: il mare.
Quei trenta mesi furono anche tra i più aridi che, a memoria d’uomo, si ricordassero. Non ci fu pioggia per nutrire l’uva, i fichi e le stente piante coltivate tra le roccie e le fessure dell’isola. La gente mangiò i fiori di fichidindia, poi le foglie dei fichidindia e infine l’intera pianta dei fichidindia per sopravvivere. Mangiavano qualsiasi cosa si muovesse o vivesse, però alla fine più niente sembrò esser vivo o muoversi. Quei trenta mesi furono tra i più nefasti della storia umana e l’isola non ne fu risparmiata. Trenta mesi, che videro quattro persone su dieci, a Ponza, morire per mancanza di cibo, di acqua, e soprattutto per mancanza di speranza. Trenta mesi senza la posta che si attendeva dai figli combattenti nei deserti del nord-Africa, tra la neve della Siberia, nelle città d’Italia; dai campi di concentramento e di schiavitù della Germania, o dalle navi da guerra, le navi mercantili e i sottomarini. Quei trenta mesi videro l’agonia della piccola isola, mentre ad un evento devastante ne seguiva un altro. Infine, quasi sul finire della guerra, videro l’unico ponte con la terraferma distrutto davanti ai loro occhi
Accade nelle prime ore del mattino del 24 luglio 1943, quarantasei giorni prima che l’Italia si arrendesse alle mani degli alleati.
La Santa Lucia era una piccola nave di quattrocentocinquanta tonnellate che manteneva i contatti tra Ponza, la piccola isola e prigione di Santo Stefano, e Gaeta. Già il giorno precedente un aereo britannico aveva mitragliato la nave in prossimita di S. Stefano. L’avvertimento non fu tenuto in debita considerazione e il giorno successivo il S. Lucia riprese il mare, da Ponza, diretto verso Ventotene e Gaeta. Nessuno credette che gli alleati avrebbero attaccato una nave con passeggeri civili, tra cui donne e bambini. Nessuno credette che ciò fosse possibile. Si sbagliarono.
La maggior parte delle persone a bordo aveva sofferto la fame, e cercavano di raggiungere la terraferma per lavorare; avevano assoluto bisogno di guadagnare per sfamare le loro famiglie. Tale fu la sorte di Benedetto, il fratello minore di Giovannina. Sua madre, sua moglie e Giovannina non volevano che lui andasse, ma lui era talmente disperato che voleva ad ogni costo raggiungere Gaeta e riunirsi ai suoi fratelli; insieme avrebbero messo al sicuro la barca da pesca di famiglia, la ‘San Salvatore’.
Le acque erano calme e l’aria limpida quando la luminosa nave bianca lasciò il porto di Ponza. Familiari, amici e curiosi salutarono i passeggeri. Molti asciugarono lacrime di paura e preoccupazione mentre il piroscafo scompariva all’orizzonte diretto verso Ventotene.
Poco prima che raggiungesse il porto di Ventotene, si udì il terrificante ronzio di aerei di guerra. Un aereo britannico sparò sulla nave costringendo i passeggeri e l’equipaggio terrorizzati a rifugiarsi sotto coperta. L’esperto e coraggioso capitano scansò due siluri lanciati da due velivoli britannici e con una manovra disperata provò a far arenare l’imbarcazione sulla spiaggia di Ventotene. Non ci fu il tempo. Altri colpi d’arma da fuoco perforarono, mandarono in pezzi e fecero esplodere il ponte e ferirono gravemente il capitano e gli ufficiali. La nave priva di comando era ormai un facile bersaglio. Un siluro colpì la nave, che esplose, spezzandosi in due e affondò in pochi minuti. L’esplosione echeggiò tra le colline di Ventotene. Le vive fiamme e il fumo della nave si videro per venti miglia.
Il fratello minore di Giovannina di soli trentatré anni e altri centoquattro passeggeri sparirono nelle acque del Mediterraneo. Lei e la sua famiglia erano inconsolabili. Benedetto lasciava la moglie e due figli piccoli.
Giovannina si prese cura di loro e tutta l’isola si unì al dolore delle molte altre vittime del massacro. Lei aveva toccato di persona l’assurdità della guerra, che l’aveva derubata di una parte di sè, nella sua stessa carne. Quella cicatrice nella sua anima e nel suo cuore sarebbe rimasta per sempre.
Fu proprio la sua forza che consolò i suoi genitori. Il fatto che lei fosse là, disponibile a sostenere gli afflitti da perdite così gravi. Fu ancora lei a consolare la sua famiglia quando il loro orgoglio e la loro gioia, la goletta “San Salvatore”, fu affondata da un sottomarino britannico. La fortuna della famiglia e i loro risparmi erano svaniti a causa di un altro assurdo atto di guerra.
Alla prova di quelle avversità la maggior parte delle donne, disperate, avrebbero perso la fede in loro stesse e nella natura umana; la stessa fede in Dio. Ma non lei. Nel momento in cui le ostilità si placarono lei si riunì con il marito, sottufficiale nella Marina Italiana, che era stato obbligato a stare a Roma.
Lasciò l’isola vestita di nero come una donna a lutto; come le migliaia di donne italiane che vagavano in cerca di notizie e tracce dei loro mariti; delle persone care travolte dalla guerra.
Erano così tante, le donne vestite di nero, che sembrava non poterle distinguere l’una dall’altra. Ciascuna teneva una storia drammatica rinchiusa nel proprio cuore e nel vestito nero, indossato come segno di sofferenza e ricordo.
Giovannina piangeva per il fratello perduto, il nipote, gli amici e i parenti che non avrebbe più rivisto.
*
L’unico modo per arrivare a Roma fu di prendere un passaggio e viaggiare su un camion di carbone sporco e polveroso che lentamente si spostava da Gaeta a Roma. Lei era esausta, sporca e affamata quando raggiunse la viuzza dove abitava il marito.
Aveva trentotto anni ed era madre di quattro bambini; insieme a loro aveva affrontato la fame e la paura da sola a Ponza per quasi tre anni. Le preziose tessere della famiglia erano rinchiuse in uno scatolone nell’appartamento di Roma, mentre loro ne avevano disperato bisogno a Ponza, per comprare il cibo. Senza le tessere si ritrovarono alla misericordia di familiari e amici che anch’essi a loro volta affrontavano la carestia.
Finalmente si era lasciata il tutto alle spalle e avrebbe rivisto il suo amato sposo. Colpì diverse volte la scura porta di quercia del loro appartamento. Suo marito aprì la porta cautamente, temendo fossero sconosciuti o mendicanti in cerca di cibo e soldi.
In un primo momento lui non riconobbe la donna magra e sparuta vestita del nero spaventoso colore della morte; non riconobbe la sua voce che era diventata debole a causa della fame e del dolore. Finalmente comprese che quella era la sua donna, di cui non aveva avuto notizie e che non aveva visto per tutti i lugubri mesi e anni di guerra.
Lei non avrebbe mai dimenticato l’esperienza di quel viaggio e il loro incontro.
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Alla guerra seguì la pace e alla distruzione la ricostruzione. Giovannina andò avanti con la sua nuova vita per la sua famiglia e iniziò a ricostruire sul dolore e le disgrazie del passato.
I decenni trascorsero e ad ogni anno che passava lei maturava in saggezza e diventava più coraggiosa. La sua famiglia e la sua isola erano le sue passioni. Lei amava il posto in cui era nata e soprattutto amava il suo nome. Era orgogliosa di far parte di una famiglia che aveva contribuito a costruire Ponza. Una famiglia da cui per quasi un secolo erano nate le persone che avevano accompagnato un villaggio di pescatori fin dentro il ventesimo secolo; il più duraturo sindaco in carica che, nel bene o nel male, era stato capace di trasformare l’isola, da un scoglio brullo abitato con poveri pescatori e contadini, in una perla del turismo nel Mediterraneo. Alla sua famiglia appartenevano i padroni di una grande flotta di pescatori e capitani – tra cui suo padre e i suoi fratelli – che diedero lavoro, insegnarono, e prepararono due generazioni di ponzesi al mestiere del marinaio e all’arte degli affari; alla pesca delle aragoste e ai complicati affari internazionali di quel mercato. La gente della sua famiglia aprì ai bastimenti e ai mercanti le porte del Mediterraneo; fornì i dottori, gli avvocati, i farmacisti ed i politici dell’isola. Si accasarono nel benessere e nell’autorità e saldarono durevoli unioni di sangue.
In particolare, fu la famiglia di Giovannina che diede una guida spirituale e un’educazione a centinaia di bambini e si occupò delle chiese di Ponza; negli anni più scuri come nei momenti piu belli. Giovannina fu sempre orgogliosa dei suoi antenati e del nome che portava, ai suoi occhi emblema di coraggio e orgoglio. Tramandò gli stessi sentimenti ai suoi figli e nipoti come un dono prezioso e mai fece loro dimenticare che erano discendenti dei ‘Sandolo’, provenienti da ‘La Contrada Sandolo’.
La parte più nobile di quella eredità erano la generosità e l’altruismo, che parvero a molti estendersi al di fuori dei limiti comuni. Il suo senso di carità iniziava nella famiglia e nella casa e poi muoveva all’esterno. Non esitò ad acquistare una barca da pesca per suo suocero, così che potesse sentirsi utile e realizzato; si prese cura della suocera quando questa divenne troppo anziana per prendersi cura di sè stessa. Non esitò a dividere i guadagni con la cognata rimasta vedova con quattro figli; si prese cura dei suoi nipoti e della loro istruzione, per dare loro una possibilità di una vita migliore. In ogni sua scelta, per Giovannina la possibilità di rendersi utile, caritatevole e generosa era un’opportunità, non un problema.
Quando sua madre rimase paralizzata a causa di un ictus cerebrale, Giovannina rimase al suo fianco per aiutarla e confortarla; viaggiò tra Roma e Ponza per anni. Sua madre era la sua priorità, Ponza e i suoi genitori erano la sua priorità, la famiglia era la sua priorità. Con amore, coraggio e fatica, tanta fatica, fu capace di prendersi cura di suo marito e dei suoi figli a Roma, di sua madre sull’isola e dei suoi suocer. Allo stesso tempo curava degli affari e le finanze di famiglia a Ponza. Giovannina si trovava vicino alla madre quando questa fu quasi in punto di morte. Dopo quell’episodio e per vari anni, sua madre rimase dolorante a letto e ammutolita. Il colpo che le aveva tolto la forza, la voce e lo spirito, non le portò via però l’amore per la sua famiglia. Giovannina continuamente parlava alla madre silenziosa; la imboccava, la lavava, e la girava per evitare che formasse delle piaghe da decubito. Gli sforzi compiuti in quei giorni furono la causa degli agonizzanti mal di schiena di cui Giovannina soffrì per il resto della sua vita. Il giorno in cui sua madre morì, lei andò a pescare per alleviare le tensioni e il dolore che provava a vedere la madre faticare per tirare gli ultimi respiri. Sua madre scese in un calmo sonno che la portò nell’altro mondo.
Giovannina sentì una grande forza spirituale dentro di sè, mentre gettava la sua lenza nelle acque trasparenti e prendeva molto più pesce di quanto avesse mai visto prima. Al momento di riempire la sua sacca con il pesce pescato, udì le campane della chiesa suonare a morto e sentì che sua madre non c’era più: lei le era stata vicina in ogni momento.
Giovannina e la sua famiglia posero la madre a riposo nella cripta dei Sandolo nell’unico cimitero sull’isola. Era stato costruito sulle rovine del palazzo di una imperatrice romana; adesso era la casa di migliaia di abitanti di Ponza caduti nell’eterno sonno della morte.
Era l’anno 1953. Ponza fronteggiava ancora la povertà e le conseguenze della guerra. Molte partirono per cercare di farsi una nuova vita negli Stati Uniti, Australia o Sud America; in tanti rimasero con la speranza di un giorno migliore.
(Giovannina.2 – continua)