Alla redazione di “Ponzaracconta”
Collegandomi all’impresa marinara compiuta il 5 marzo del 1944 dal capitano di bastimento Antonio Feola, meglio conosciuto come Totonno Primo, ben ricordata dal nipote Antonello il 6 marzo scorso su queste pagine di “Ponzaracconta” https://www.ponzaracconta.it/2011/03/06/anniversari-5-marzo-1944-per-non-dimenticare/ , mi fa piacere proporre alcuni frammenti di vita quotidiana nelle isole Ponziane nel periodo successivo alla firma dell’Armistizio con gli anglo-americani. Ancora una volta racconto piccole storie isolane che possono avere un significato diverso, quasi eroico, se viste con lo spirito del tempo e in relazione con la macrostoria.
Antonio Usai
L’Armistizio e la rinascita del fascismo visti dalle isole Ponziane
Dopo il 25 luglio e la destituzione di Mussolini, il governo Badoglio proclamò che nulla sarebbe cambiato nell’impegno bellico italiano ma, nello stesso tempo, prese contatti con gli anglo-americani per giungere ad una pace separata. I negoziati portarono all’armistizio che fu reso pubblico soltanto l’8 settembre del ’43 dallo stesso Badoglio.
L’annuncio dell’armistizio gettò l’Italia nel caos più completo, mentre il re e il governo abbandonarono la capitale per riparare a Brindisi sotto la protezione degli Alleati appena sbarcati in Puglia.
Il 9, una piccola pattuglia di soldati americani, sbarcò a Ventotene e offrì ai militari tedeschi di stanza sull’isola la resa con l’onore delle armi. Il comandante tedesco, convinto che la presenza dei militari americani fosse massiccia, accettò la resa e ordinò ai soldati delle postazioni contraeree insediate alla sommità di Punta Eolo, di marciare con le armi bene in vista sulla testa e di consegnarsi al nemico nella piazza del Castello di Ventotene. Una volta resosi conto della sparuta presenza nemica, il comandante tedesco, rivolto ai soldati americani, in perfetto italiano esclamò: «Questa volta mi avete fregato!»
I militi fascisti rimasti sull’isola furono fatti prigionieri e, tranne poche eccezioni, furono tutti internati nei campi di concentramento approntati per l’occasione negli USA.
Soltanto al milite Andrea Muratore, una persona mite di origine siciliana, già veterano della guerra in Africa Orientale Italiana prima di entrare nella polizia confinaria, fu permesso di restare libero a Ventotene con la numerosa famiglia. Egli, infatti, era molto abile come ciabattino e la sua arte nel fabbricare morbide scarpe di pelle che si potevano calzare come guanti, fu molto apprezzata dagli ufficiali americani che presidiavano l’isola.
Eugenio abbandonò Ventotene per rifugiarsi a Ponza
Insieme ad altri militi che avevano sposato ragazze di Ponza, Eugenio riuscì a fuggire fortunosamente da Ventotene la mattina dell’otto settembre, con il bastimento di Peppe Iacono, soltanto poche ore prima dell’arrivo degli americani sull’isola. Dell’armistizio, i fuggitivi vennero informati appena giunti a Ponza.
I ponzesi del popolo accolsero con manifestazioni di giubilo l’annuncio ufficiale trasmesso dalla radio nazionale, pensando che la guerra fosse finita. Soltanto il parroco, Don Luigi Maria Dies, considerò quello un giorno infausto per Ponza e per l’Italia, certamente non per la fine del conflitto ma per la caduta del fascismo.
Anche i soldati di stanza sull’isola presero parte ai festeggiamenti esplodendo colpi di fucile in aria in segno di gioia.
I fedeli si raccolsero in preghiera nella chiesa principale della S.S. Trinità. Nonostante l’amarezza del parroco, per festeggiare la fine della guerra decisero di organizzare una processione spontanea di ringraziamento a San Silverio e alla Madonna della Salvazione, la cui festa ricorreva proprio in quel giorno.
Il corteo religioso, partito dal piazzale della chiesa del porto, stava ormai per giungere alla cappella del cimitero, dedicata alla Madonna della Salvazione, a Santa Lucia e alle anime del Purgatorio, quando apparvero nell’azzurro cielo settembrino alcuni aerei tedeschi. In un primo momento i velivoli sorvolarono l’isola ad alta quota. Sembravano che fossero di passaggio, ma improvvisamente scesero in picchiata e con furia animalesca mitragliarono le case sul porto.
I fedeli, in particolare quelli che parteggiavano ancora per il regime, rimasero atterriti nel vedere i tedeschi, gli alleati di sempre, sparare su gente indifesa. Dopo alcuni attimi di smarrimento, percepito il pericolo, anche i portantini abbandonarono per strada la statua di San Silverio e quella della Madonna e, come tutti gli altri poveretti, si misero al riparo nei portoni delle case o sotto i muri della stradina del cimitero in prossimità del vecchio faro.
L’attacco aereo fortunatamente non provocò vittime ma soltanto tanta paura. I colpi di mitraglia centrarono l’edificio del carcere sotto la Torre dei Borboni ed alcune abitazioni lungo il Corso Carlo Pisacane, nel tratto adiacente la piazzetta di Punta Bianca.
Scampato il pericolo, Eugenio, che nei suoi trentaquattro anni di vita, come soldato e come milite, ne aveva viste di tutti i colori, rivolto a sua suocera, Michelina Montella, e alla moglie Lucia, disse: «Facciamoci coraggio perché nonostante l’Armistizio la guerra non può dirsi finita. Anzi, il bello deve ancora venire!»
Fu un buon profeta di sventure, perché la guerra di liberazione dai nazi-fascisti durò a lungo e si concluse soltanto il 25 aprile del 1945, un anno e mezzo più tardi.
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Negli anni della giovinezza, come la maggioranza degli italiani, anche Eugenio aveva preso la tessera del Partito nazionale fascista, il Pnf, e credeva ciecamente in Mussolini e nel fascismo. Ci credeva da uomo semplice, convinto che il regime fosse un bene per l’Italia e per gli italiani.
Nell’autunno del 1943, però, con la nascita della Repubblica Sociale Italiana, memore delle disgrazie portate dal Duce agli italiani, convinto che la guerra fosse irrimediabilmente perduta, a differenza di alcuni suoi commilitoni di Ventotene che si arruolarono nella Guardia Nazionale Repubblicana, non s’iscrisse al Partito fascista della Repubblica di Salò (Pfr) e neppure si trasferì nel nord Italia per combattere contro i partigiani al fianco dei tedeschi.
Ponza occupata dalle truppe britanniche
A distanza di pochi giorni dalla liberazione di Ventotene, anche Ponza fu occupata dagli Alleati. Le truppe britanniche s’insediarono nel vecchio Campo inglese, posto a metà strada tra il porto e la frazione delle Forna, quasi con le stesse modalità seguite le altre volte: la prima, nel 1799, ai tempi della Repubblica Partenopea; la seconda, nel 1813, quando a Napoli regnava Gioacchino Murat, durante il periodo napoleonico.
Senza indugi, il comando militare britannico destituì il podestà fascista e nominò Tito Zaniboni, ex confinato a Ponza, Sindaco provvisorio dell’isola, con il compito di provvedere alla normale amministrazione.
Ponza, per la sua posizione rispetto alla terraferma e per la vicinanza alla capitale, era considerata strategica dagli Alleati, in vista di un possibile sbarco in centro Italia per liberare Roma dall’occupazione tedesca.
E il 22 gennaio del ’44, lo sbarco sulle coste laziali ci fu davvero. Quel giorno, sui litorali di Anzio e di Nettuno, si riversarono decine di migliaia di soldati anglo-americani, accolti da una forte resistenza tedesca. La battaglia per la liberazione di Roma fu lunga e cruenta, con decine di migliaia di perdite di vite umane da ambo le parti. Si concluse il 6 giugno, con l’ingresso, tra ali di folla festante, delle truppe alleate nella capitale, abbandonata dai soldati della Wehrmacht in fuga verso la Toscana.
I ponzesi abbandonati al loro destino
Dopo l’affondamento del piroscafo Santa Lucia, per la maggiore delle isole Ponziane, il rifornimento dei viveri fu affidato esclusivamente ai viaggi avventurosi dei motovelieri Maria Pace Feola e Antonio Feola, di proprietà di un intraprendente armatore ponzese, Totonno Primo (al secolo Antonio Feola), detto l’aragostaro o anche sparafucile.
Il Maria Pace Feola, un vecchio motoveliero, piuttosto lento, che viaggiava alla velocità di appena quattro nodi, aveva soltanto una minuscola cabina in grado di ospitare una quindicina di persone.
C’erano, inoltre, due panche esterne per dare la possibilità ai passeggeri di sedersi all’aperto.
Nelle giornate di bel tempo, altri passeggeri potevano sostare anche in coperta, in piedi oppure seduti sul pavimento di legno.
Con il brutto tempo, ai passeggeri che non avevano trovato posto in cabina non restava altra scelta che chiudersi nella stiva.
Non potendo contare sul piroscafo di linea, l’approvvigionamento di cibo, vestiario e materie prime delle isole era diventato sempre più difficoltoso. Poi c’era il pericolo delle mine in mare, che si aggiungeva alla scarsità di cibo sui mercati del Lazio meridionale, diventato retrovia dei tedeschi nella cruenta battaglia del Garigliano.
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Nell’autunno-inverno del 1943-’44, i ponzesi dovettero arrangiarsi con le magre risorse dell’agricoltura, dell’allevamento di animali da cortile e della pesca. Non erano pochi coloro che si nutrirono soltanto con erbe selvatiche e pesci cotti con l’acqua di mare. Si arrivò persino a tagliuzzare in fette sottili le foglie dei fichi d’india, le “palette”, per poterle bollire e mangiare come una verdura qualsiasi.
In quel periodo terribile, la denutrizione e la fame avevano causato gravi malattie e numerose morti tra la popolazione, specialmente tra i vecchi e i bambini. Un esempio per tutti: il 9 agosto del 1944, nonostante le condizioni climatiche ottimali, all’età di sette mesi morì Michele, l’undicesimo e ultimo nato della nidiata di Michelina Montella, la mitica bidella della scuola elementare, e di Salvatore Mazzella.
Fin dalla nascita, avvenuta proprio al culmine della carestia, in gennaio, il bambino era stato costantemente sotto peso, causa la malnutrizione della madre, dovuta alla scarsità di mezzi economici e di derrate alimentari nei negozi.
Un’impresa davvero eroica, che evitò ulteriori lutti alle famiglie isolane, si concretizzò nel marzo del 1944 quando, coadiuvato da un equipaggio coraggioso, formato dai giovani leoni del tempo (Maurino Di Lorenzo, Geppino Vitiello, Luigi Parisi ed altri), ben saldo al comando del suo motoveliero, Totonno Primo, di anni trentanove, entrò trionfalmente nel porto di Ponza con un carico di viveri americani che servì a sfamare la popolazione ormai allo stremo:
https://www.ponzaracconta.it/2011/02/22/la-storia-di-totonno-primo/ .
Si dovette attendere fino all’inverno del 1946, ben due anni e mezzo dopo l’affondamento del piroscafo Santa Lucia, per ottenere il ripristino di un regolare servizio di linea con la terraferma. Alla fine della guerra, la SPAN poteva contare soltanto su cinque navi per coprire le linee per le isole Ponziane e napoletane. La Società di navigazione, per aumentare l’offerta di navi, decise di recuperare il Capri, affondato a Baia, e il Meta in disarmo a La Spezia. Anche il Regina Elena, il Sorrento e la Principessa di Piemonte, che cambiò il nome in Mergellina, dopo lunghi e costosi lavori di ammodernamento in cantiere, furono in grado di garantire un accettabile servizio passeggeri.
Il vecchio piroscafo Regina Elena, varato nel 1903 e scampato fortunosamente alle insidie della guerra, rimase in servizio nelle isole Ponziane fino ai primi anni Sessanta con il nome di Equa.
La motonave Mergellina nel porto di Formia. Sullo sfondo la prua dell’Equa
La popolazione in difficoltà nella Ponza liberata
L’autunno-inverno del 1943-’44, fu particolarmente duro anche a Ponza. E’ vero che gli echi delle bombe erano lontani e che la lotta partigiana si svolgeva prevalentemente in nord Italia, ma la gente dell’isola soffriva letteralmente la fame.
Gli scaffali dei negozi erano vuoti e chi aveva soldi comprava i generi di prima necessità al mercato nero, ovviamente a prezzi esorbitanti.
Eugenio era disoccupato e la sua famiglia viveva in condizioni disagiate in un modesto alloggio, al piano terra del grande edificio dove abitava anche la suocera, Michelina, nella salita della Madonna. Il suo bambino aveva appena sei mesi e, in tutta l’isola, non si trovava una goccia di latte per nutrirlo. Di tanto in tanto riusciva a comprare un bicchiere di latte di asina da Lucia Migliaccio, a Chiaia di Luna, che aveva un figlio della stessa età.
La fine dei risparmi e il venir meno dello stipendio della Milizia, che fino all’armistizio aveva garantito una discreta agiatezza a tante famiglie isolane, si avvertiva, eccome!
Per certi versi, a Ponza, Eugenio se la passava meglio dei suoi ex commilitoni che avevano deciso di continuare a combattere, rischiando la vita ogni giorno, e stava anche meglio dei partigiani che combattevano i nazifascisti in montagna e della gente delle città bombardate dagli anglo-americani, ma nel rifugio di Ponza si rischiava la morte ugualmente, non per mano del nemico, bensì per la scarsità di cibo.
E il fascismo risorge
Negli ultimi mesi del 1943, mentre Eugenio, Lucia e il loro unico figlio erano rifugiati a Ponza, dove la vita trascorreva tra mille difficoltà, sebbene con relativa tranquillità, nel resto del Paese le cose andavano anche peggio.
Dopo la liberazione della Sicilia, l’8 settembre era stato il turno della Sardegna; il 9, gli anglo-americani sbarcarono a Salerno. Il 28, al termine delle valorose “quattro giornate”, che avevano visto i napoletani insorgere contro i tedeschi, anche Napoli era stata liberata.
Il 12 settembre, Mussolini era stato liberato a Campo Imperatore. Pochi giorni dopo, fu annunciata la creazione di un nuovo Stato nell’Italia settentrionale occupata dai tedeschi.
Il 25, il Duce riunì il primo Consiglio dei ministri del nuovo governo e due settimane dopo, l’8 ottobre, proclamò ufficialmente la nascita della Repubblica sociale italiana (Rsi), con capitale Salò, e la fondazione del Partito Fascista Repubblicano.
Il 13 ottobre, l’Italia del re e di Badoglio dichiarò ufficialmente guerra alla Germania.
Dunque, come aveva predetto Eugenio riparandosi dai colpi di mitraglia tedeschi durante la processione di ringraziamento sulla collina della Madonna, la guerra non era ancora finita … e le condizioni di vita a Ponza sarebbero peggiorate ancor più!
Antonio Usai
La motonave Equa, già Regina Margherita