di Noemi D’Andrea
Penso che non esista ponzese che non abbia mai fatto un’uscita notturna di pesca al totano. E penso che, nonostante sia io persona per niente avvezza alla pesca, non esista un tipo di pesca più magica, più affascinante.
Le volte che Pietro mio fratello mi ha concesso, da ragazzi, di portarmi con lui, rimangono dei doni di valore incalcolabile, fosse soltanto per avermi permesso di conservare negli occhi e nel cuore le immagini e le sensazioni di quei momenti.
La preparazione cominciava già nel pomeriggio, ed in genere lui la tirava lunga con me e con mia sorella Cinzia sul fatto di concederci l’onore di salire in barca con lui “ poi vediamo se venite, non lo so ancora….”. Ed ora mancavano le lenze, ora non c’era posto perché già erano in troppi, il malefico fino all’ultimo momento ci teneva con il fiato sospeso.
Ma poi alla fine capivamo che facevamo parte del gruppo quando ci mandava giù alla banchina a comprare le alici (o le sarde) per armare le lenze: quei terribili e pungenti ancorotti su cui dovevi avvolgere il povero pesce sfilettato e legarlo con il cotone, che inevitabilmente si intrecciava in modo maldestro e disordinato.
E dopo aver caricato con l’acetilene le lampade dalla ferramenta al porto si partiva, bardati come i pescatori delle acque del nord: maglioni, cappelli, calze “perché la notte l’acqua di mare ti entra nelle ossa”, come diceva mia madre.
Appena partiti era bellissimo guardare il porto con le sue luci, un vero presepe, ma appena girati i faraglioni della Madonna venivo inevitabilmente assalita dalla paura, che puntualmente dimenticavo appena finita la pesca; un po’ come i dolori del parto!
Tutto quel buio avrebbe reso inquieto anche l’animo più audace, vedere solo il nero dell’acqua e sentire il rumore cadenzato e assordante del motore del gozzo ti induceva al silenzio totale, che si rompeva solo quando arrivavi sul posto. Appena il motore veniva spento, come per magia, riprendevi possesso anche della tua mente, e finalmente potevi parlare!
Ancora non mi spiego come, nel buio più totale, potessero riconoscersi tra di loro i vari pescatori e, se posti a distanza adeguata, chiamarsi per nome e rispondersi; la magia cominciava da quel momento.
Date le ultime disposizioni ognuno aveva la propria esca tra le mani ed il secchio in cui far ricadere la lenza tra i piedi. E buttavi giù il filo, 30-40 metri ed aspettavi di percepire con le dita uno strattone, un segno che qualcosa avesse abboccato.
In genere mentre aspettavo fantasticavo su che cosa potesse succedere sotto la barca, su che cosa passasse lì sotto, mentre osservavo lo scintillìo del plancton che affiorava sulla superficie dell’acqua.
Spesso si sentiva l’acqua muoversi, come per il guizzo di qualche pesce ed allora, sempre quel malefico di Pietro, esperto come era di pesce, ci allarmava sulla possibile presenza di ricciole giganti e di ‘canesche’ affamate.
In genere il primo totano lo prendeva sempre lui, o Carmine il fiorentino, degno compare di battute di pesca, ed era il momento migliore: si poteva rientrare in porto con qualcosa nel secchio e la brutta figura era evitata!
Quando il totano lo tiri fuori devi stare attento, perché schizza dalla sua sacca l’acqua e noi, puntualmente, venivamo “sputacchiate” dal mollusco vendicativo.
Ma era il momento della grande vittoria, la dimostrazione che anche noi femmine ce la facevamo, contro tutte le previsioni, a pescare almeno uno stupido mollusco! Anzi in verità, sarà stata la fortuna dei principianti o l’innegabile bravura nel trovare il posto giusto da parte di Pietro, tornavamo sempre con i secchi pieni di totani.
O forse soltanto la conferma che il totano è un pesce facile da pescare.
Momento delizioso era la pausa panino, in genere preparato con il pomodoro o con la mortadella comprata all’alimentari del sig. Luigi, il papà di Ornella e Maria Rita a S. Antonio.
Era il momento in cui si dava fondo a tutte le leggende che aleggiavano da anni sulla pesca di un pesce abissale, come quello pescato da non si sa chi, che aveva i due tentacoli più lunghi di tre metri (!) o quella volta che, tirando su il totano, il malcapitato pescatore era stato soffocato tra le spire dei tentacoli e via dicendo.
Il tutto interrotto dalle domande ad alta voce alla barca vicina: “ Francù, quanti ne hai presi?” rivolte e Francuccio “zumpariello” che in genere usciva con la sua barca insieme a noi.
E come al solito vinceva lui.
Ancora ricordo le voci che arrivavano nel silenzio dalle barche vicine, ed era una gara per cercare di capire cosa stessero dicendosi; le risate per chi sa quale storia raccontata o le frasi che spezzavano il silenzio ovattato, illuminato dalla luna e rotto dallo sciacquio delle onde.
Il tutto avvolto dall’odore acre e penetrante dell’acetilene che si consumava dalle lampade a prua.
E poi c’era il ritorno che, indipendentemente dal pesce pescato, era sempre il momento migliore, a mio avviso,: in silenzio ascoltavo il rumore del vento, debole e umido, ed aspettavo di vedere le luci del porto che come una cometa ci indicassero la via.
Il sale ti appiccicava la faccia, la stanchezza cominciava a farsi sentire, ma mai ho provato niente di più magico nella mia vita, mai mi sono sentita parte della natura come in quei momenti.
Noemi D’Andrea