di Enzo Di Fazio
1. Il mestiere di guardiano del faro – Una vita da cristiani
Mio padre, negli ultimi anni della sua vita, amava spesso parlare con me del tempo trascorso nei fari.
“Una vita da cristiani” soleva sottolineare, per onorare quello che per lui era stato un lavoro “nobile”, visto che gli anni dell’infanzia e quelli della giovinezza, prima che approdasse ai fari, erano stati anni duri, scanditi da sonni interrotti, per aver anzitempo intrapreso, per necessità, il mestiere di manovale.
‘Quarant’anni di onorato servizio’ – diceva – racchiusi e consacrati in due parole ‘ottimo – promuovile’ che l’Amministrazione dei Fari gli attribuiva in un giudizio sintetico, puntualmente alla fine di ogni anno solare, per il servizio prestato e che rappresentavano, insieme, il premio per la dedizione al lavoro e la speranza in un futuro migliore.
Ne era andato molto orgoglioso, di quei 40 anni, non sempre facili e non sempre tranquilli, anche se l’ambita ed unica promozione possibile, quella di Agente capo fari, era arrivata solo a pochi anni dal pensionamento.
Molti di quegli anni li aveva vissuti a Zannone dove spesso gli ho fatto compagnia.
L’inizio è intorno al 1952. Non avevo ancora 5 anni quando misi per la prima volta i piedi su quell’isolotto.
Lo ricordo bene perché non andavo ancora a scuola; a Zannone ho imparato a leggere. E’ lì che ho cominciato a conoscere le vocali e le prime lettere dell’alfabeto grazie all’aiuto di mio padre e di un vecchio sillabario illuminato da un grosso lume a petrolio.
In quegli anni il faro non era dotato ancora di corrente elettrica, energia venuta negli anni successivi con l’installazione di un gruppo elettrogeno ed il tempo che mio padre dedicava al mio apprendimento era qualche ora serale appena dopo cena.
L’energia che consentiva al faro di funzionare era prodotta, allora, dal gas di acetilene, che si sviluppava per il contatto delle pietre di carburo di calcio con l’acqua.
In un grosso locale, per motivi di sicurezza separato ed in zona sovrastante il fabbricato che ospitava gli appartamenti dei fanalisti e la torre del faro, era sistemato il complesso di vasche, serbatoi e tubi che rappresentavano la centrale di produzione del gas di acetilene. I fanalisti lo chiamavano correttamente ‘il gasogeno’. Si trattava di un impianto, tutto sommato abbastanza semplice, costituito da una serie di serbatoi di acciaio a forma di cilindro collegati tra di loro da tubi e da serpentine la cui monotonia era interrotta solo dalla presenza di alcune valvole e da tre grossi manometri. Rappresentavano questi ultimi probabilmente la strumentazione più importante dell’impianto visto che il movimento delle loro lancette era sottoposto al costante controllo da parte di mio padre. Solo più tardi, in età adulta, ho avuto cognizione di quanto delicato fosse il funzionamento di quell’impianto e quanti pericoli potesse comportare una non corretta manutenzione.
Tornando alla produzione di energia, questa, come ho detto, derivava dall’uso delle pietre di carburo. Queste ultime, di odore molto forte e acre, erano contenute in maniera ermetica in robusti fusti di ferro, a loro volta custoditi in un altro locale, il cosiddetto “casotto” – come lo chiamavano i fanalisti – distante una ventina di metri dall’impianto. Le pietre di carburo, secondo il bisogno, venivano calate nei serbatoi di acciaio e qui, a contatto con l’acqua che vi arrivava attraverso dei tubi, sprigionavano il gas di acetilene che si incanalava nelle serpentine e da queste, con la pressione controllata attraverso i manometri, fino alla lanterna del faro.
Nella lanterna l’accensione avveniva, poi, dando fuoco ad un cappuccio di garza bianca montato, come una rudimentale lampadina, alla sommità di un tubicino; la presenza di una provvidenziale valvola andava ad assicurare l’uscita e l’arresto del gas secondo il bisogno.
Qualche parola in più merita la descrizione del cappuccio di garza. Non so quale sia la definizione giusta e di quale materiale fosse fatto. Per i fanalisti era semplicemente “la garza”, così denominata probabilmente perché bianca e con una tramatura molto simile a quella delle garze di uso infermieristico; io aggiungo cappuccio perché la forma era quella di una specie di copridita della lunghezza di poco meno di cinque centimetri. Aveva un certo fascino, quell’oggetto, per la caratteristica di bruciare senza mai distruggersi, per la forza di resistere nonostante l’apparente fragilità, per la capacità di dare tanta luce anche se per merito dell’enorme amplificazione del sistema lenticolare (portata 12 miglia). Ricordo che veniva sostituita più o meno una volta ogni mese.
2 – Il gozzo di Parisi, la ‘Santissima Trinità’
In quegli anni Zannone, con il suo faro, dava da vivere a tre famiglie.
Sull’isola dovevano restare, per il servizio e per la guardia, non meno di due fanalisti, per un periodo continuativo di 15 giorni, il terzo, a rotazione, usufruiva di una settimana di riposo a Ponza.
Il cambio avveniva ogni giovedì; il mezzo di trasporto utilizzato per i collegamenti era la barca di Luigi Parisi (detto Gigino), un bel gozzo di ispirazione sorrentina di quindici metri di color grigio chiaro con una gran fascia blu.
Il gozzo si chiamava ‘Santissima Trinità’ e lo si riconosceva dal caratteristico rumore del motore ‘ad un cilindro’ ancor prima che comparisse, con la sua bella sagoma sfilata e l’albero per la vela latina, all’altezza dello ‘Scoglio del Mariuolo’, estrema punta di ponente dell’isola.
Luigi Parisi, classe 1910, era un uomo vigoroso come doveva essere un marinaio. Il suo vero lavoro era, però, quello di maestro d’ascia. Il gozzo ‘Santissima Trinità’ l’aveva costruito lui nei cantieri di proprietà di Santa Maria. Il mestiere l’aveva cominciato ad imparare, ancora ragazzo, nella bottega di un grande artigiano dell’epoca, mastro Pacifico, meglio conosciuto con il soprannome di ‘Pataccone’. Mi racconta oggi Ciro, il figlio più grande di Gigino, che suo padre, durante quel periodo di apprendistato alla bottega di Pataccone, prendeva una paga di 1 lira al mese. Gigino era contentissimo quando portava a casa il frutto delle proprie fatiche ma non sapeva che quella lira era la madre ad averla data al maestro carpentiere affinché insegnasse il mestiere al piccolo Luigi. Un bell’esempio di circolazione della moneta…
Leggermente sordo, Gigino gridava anche quando doveva sussurrare, abitudine acquisita probabilmente per via di quell’esercizio di alzare la voce e scandire le parole per farsi capire anche durante la navigazione. La traversata durava, in condizioni metereologiche normali, circa un’ora. Erano le operazioni di sbarco a costituire la parte più delicata del viaggio.
3 – Il punto di attracco – ‘A preta’
L’attracco, tra gli scogli, era a ponente, in quella parte dell’isola che si caratterizza per la presenza di una piccola appendice che, grazie alla sua natura pianeggiante, ha consentito la costruzione del faro. ‘A preta’, questo il significativo nome del punto di sbarco, uno scoglio più grande degli altri ma soprattutto abbastanza piatto al punto da far pensare che l’intervento dell’uomo non avrebbe potuto fare meglio di quanto fatto dalla natura.
Prescelto come punto di attracco da chi aveva progettato il faro, era collegato all’edificio attraverso un bel percorso, lungo 40-50 metri, di gradini protetti ai due lati da un robusto muro di pietre.
L’approdo, per quanto simile ad un pezzo di banchina, era comunque di fortuna per la presenza, nelle immediate prossimità, di alcuni scogli a pelo d’acqua, le cosiddette ‘chiane’. La loro esistenza non impensieriva più di tanto se il mare era calmo, ma dava non poco preoccupazioni se spirava il vento di ponente o, peggio, se c’era ancora la risacca, sfogo residuo delle mareggiate che avevano interessato nei giorni precedenti quella parte dell’isola. Poteva infatti accadere che la presenza di onde lunghe , se trascurate, portasse il gozzo a sbattere sugli scogli.
Ricordo che, in simili circostanze, Gigino non lasciava per un solo attimo la postazione di poppa, tanto era impegnato a gestire la corda dell’ancora che tirava ed allentava secondo il bisogno. Tale manovra doveva coordinarsi perfettamente con chi sulla ‘preta’ teneva tra le mani la cima di terra, allentando e tirando a sua volta. Nei casi più difficili, cioè quando la bonaccia non aveva ancora preso il sopravvento sui marosi, era necessaria la collaborazione di una terza persona che, sistemata in una postazione più elevata rispetto al piano dell’attracco, osservava in lontananza l’avvicendarsi delle onde per individuare, in base alla loro progressione, il momento più opportuno per accostare.
Partiva così un comando, attraverso un doppio grido monosillabico ‘MÒ… MÒ!’ che si traduceva in un ordine per Gigino di allentare la corda dell’ancora e in una raccomandazione per chi stava a terra di tendere la cima per fare accostare la prua del gozzo quel tanto necessario a consentire lo sbarco, attraverso il passaggio di mani, delle ceste dei viveri o delle casse di materiali.
C’era molta tensione in tali momenti. La si percepiva nei silenzi degli uomini e la si leggeva nei loro sguardi tesi: un minimo errore poteva essere causa di incidenti. Raccontava mio padre che non ce ne sono mai stati, di incidenti, nemmeno quando, impossibilitata ad effettuare lo sbarco usuale a causa del mare mosso, la ‘Santissima Trinità’ doveva spostarsi a mezzogiorno in una zona sottovento verso ‘la Spiaggia della Cercola’. I problemi, allora, erano per i fanalisti, costretti a trasportare a spalla viveri e materiali camminando tra gli scogli che separavano la zona del faro dal luogo dove era riuscito ad attraccare il gozzo. Scene e percorsi molto simili a quelli che vedevano protagonisti i portatori di balle nelle avventure esotiche dei libri di Salgari, nelle mie prime letture.
4 – L’utilizzo del tempo
Ovviamente, a causa delle condizioni di mare avverso, capitava che non tutti i giovedì fosse assicurato il collegamento. A volte, soprattutto d’inverno, trascorrevano anche 8-10 giorni prima che la ‘Santissima Trinità’ facesse ‘il miracolo’ di apparire alla punta dello ‘Scoglio del Mariuolo’.
I fanalisti erano pazienti ed hanno saputo tenere sempre ottimi rapporti tra di loro; i giorni di servizio prestati in più venivano compensati con un numero maggiore di giorni di riposo e poi… ad onor del vero, non avevano proprio motivo di annoiarsi sull’isola.
In quegli anni il gruppo dei fanalisti era costituito oltre che da mio padre, da Francesco Vitiello e da mio zio Silverio Scotti .
Oltre la passione per la pesca, comune a tutti e tre, ognuno di loro amava dedicarsi a qualcosa di particolare.
Francesco, molto bravo nel trattare il legno, ricordo che riuscì a costruirsi una bella barca di oltre quattro metri. Bravissimo anche nel fabbricare sedie a sdraio.
Mio zio costruiva nasse, lenze per la traina di dentici e ricciole e palamiti, le cosiddette coffe, per pescare scorfani, gronchi, murene, tracine, saraghi e quant’altro il mare poteva dare.
Mio padre, anche lui bravo nella lavorazione del legno, nel corso degli anni era riuscito praticamente a realizzare un letto matrimoniale, due comodini, un mobile per poggiarvi la radio e successivamente il televisore, diversi scanni, una scala, due sedie a sdraio ed alcuni pensili da cucina; tutti mobili che l’hanno accompagnato poi nei trasferimenti al Faro della Guardia e a quello di Rotonda Madonna.
L’edificio che ospitava il faro era dotato di una bella sala-officina con banco di lavoro e tanti utensili. La materia prima, il legno, ovviamente proveniva da Ponza ma spesso veniva utilizzato del legname che i fanalisti recuperavano tra gli scogli lì spinti dalle mareggiate. A volte si trovavano tavole di bella fattura, probabilmente provenienti da carichi dispersi di navi in difficoltà. Fatte asciugare per bene e migliorate con una leggera piallatura diventavano ottima materia prima per farne scanni, sedie o mobiletti.
La pratica di andar per scogli, dopo le mareggiate, divertiva soprattutto noi ragazzi. Era un po’ come la caccia al tesoro. Vi si trovava di tutto: una volta ho recuperato perfino una lampadina integra che risultò essere – addirittura – funzionante, nonostante la presenza di un po’ d’acqua all’interno.
Un’altra volta trovammo una bomboletta di metallo (un oggetto strano per l’epoca) sormontata da una capsula molto simile allo spinotto di una bomba a mano. Bianca, con delle scritte incomprensibili in inglese, fu oggetto di osservazione anche dei nostri padri da noi allarmati. Il consiglio fu di lasciarla al suo destino certi che sarebbe ritornata da dov’era venuta. Tornati incuriositi sullo stesso luogo, dopo una nuova mareggiata, scoprimmo che il mare se l’era ripresa.
Solo molti anni dopo ho scoperto che si trattava di una bomboletta di schiuma da barba ‘Noxzema’.
Poi, ad occupare i tempi morti, c’erano i piccoli giardini antistanti il cortile e lungo la discesa verso l’attracco che, mischiati con gli scogli tanto erano vicini al mare, davano di tutto, secondo le stagioni, dalle zucchine alle melanzane, dalle insalate ai pomodori gustosissimi per la peculiarità di essere cresciuti con la benedizione della salsedine.
5 – La cura del faro
La vita su Zannone non pesava a nessuno. Gli adempimenti dei fanalisti relativamente al servizio impegnavano ordinariamente non più di quattro/cinque ore al giorno. Priorità assoluta spettava alla pulizia dell’ottica, il sistema di ‘lenti di Fresnel’ (dal nome del suo inventore, il fisico francese Augustin Fresnel) posti nella sommità del faro, e dei vetri che rappresentavano le pareti della lanterna. Da questi andava tolta la polvere che poteva formarsi all’interno e, soprattutto, la salsedine all’esterno, ivi depositata nelle giornate di scirocco o quando avevano spirato forte i venti di ponente, di maestrale o di libeccio. I vetri all’interno, durante la giornata, erano coperti da tendine di tela bianca che, collocate a protezione dell’ottica dai raggi solari, venivano rimosse poco prima dell’accensione.
Cura particolare veniva inoltre dedicata agli ottoni, la parte più delicata dell’ingegnoso sistema a orologeria che rappresentava ‘l’anima’ della lanterna.
Tale sistema fatto di ingranaggi molto simili a quelli contenuti in una cassa di orologio, si avvaleva di un peso che, ad essa collegato con un cavo di acciaio alla stregua di un pendolo, faceva ruotare le lenti man mano che andava a srotolarsi nella sottostante torre. I fanalisti a turno, durante la notte, dovevano darvi ‘corda’ ogni 4 ore per assicurare che il peso non toccasse mai il fondo della torre, scongiurando così l’arresto della rotazione delle lenti.
Va appena ricordato, infatti, che i fari si distinguono tra di loro per gli intervalli che intercorrono tra i fasci di luce e i momenti di eclisse, e per la durata dei segnali luminosi e la loro sequenza. L’insieme di questi elementi ne denotano la cosiddetta “caratteristica” e ne sanciscono l’unicità; indispensabile ai naviganti per avere nozione del tratto di mare che stanno attraversando.
In due momenti specifici della giornata, al mattino verso le 8 e nel tardo pomeriggio verso le 18-19, venivano effettuati i rilevamenti meteo con annotazione, su un apposito registro, della direzione del vento, delle temperature e delle condizioni del mare. Più o meno verso le 10 del mattino, c’era il collegamento via radio con la Capitaneria del porto di Ponza, momento molto atteso per l’illusione di vicinanza che sapevano farci vivere le voci dei marinai di turno; sebbene sembrassero passare attraverso l’imbuto di un megafono, disturbate com’erano e spesso interrotte da scariche.
Una volta la settimana, poi, andava lustrata la targa di ottone posta in bella vista a destra del portone d’ingresso con lo stemma delle quattro repubbliche marinare e la scritta “Marina Militare – Faro Capo Negro Zannone”. I miracoli li facevano la pasta lucidante ‘Sidol’ e ‘l’olio di gomito’ del fanalista di turno.
Oggi quelle targhe – là dove c’è ancora la presenza umana – vengono pulite con periodiche mani di pittura, segno del cambiamento dei tempi e di un mestiere ormai in via di estinzione.
Nota – Negli Stati Uniti d’America (che coste e segnalamenti marittimi ne ha tanti) grazie all’avvento delle valvole solari che consentono l’accensione dei fari senza l’intervento dell’uomo ed alla introduzione di sistemi computerizzati in grado di controllare la funzionalità a distanza, il mestiere di fanalista è praticamente scomparso. E’ rimasto un solo faro – quantunque automatizzato fin dal 1998 – ad essere ancora custodito da un guardiano. Si trova a Little Brewster Island, una piccola isola all’ingresso del porto di Boston. Costruito nel 1716 è anche il faro più antico d’America. (Fonte: ‘L’Evoluzione dei fari’ di Annamaria ‘Lilla’ Mariotti – www.ilmondodeifari.com )
(1. Continua)
Febbraio 2011 – Enzo di Fazio