di Gianni Sarro
.
Arriviamo finalmente al 1974 e ad Ettore Scola. E’ lui a dirigere C’eravamo tanto amati, film cardine del nostro cinema, perché narra trent’anni di storia italiana, tracciando, non a caso, lo stesso arco di Roma città aperta, Ladri di biciclette, I soliti ignoti, Il sorpasso.
Il film di Scola è un film di Storia e di storie, con una struttura complessa, dove si mescolano flashback (retrospezione o racconto di un evento avvenuto prima – analessi – NdR), flashforward (anticipazione o prolessi – NdR), fantasie ad occhi aperti, materiali di cinegiornali, rappresentazione teatrale; realizzando una contaminazione tra dramma e commedia, parodia e denuncia sociale.
Questa contaminazione, secondo Lino Micciché (storico del cinema e critico – NdR), avviene perché negli anni ’70 il cinema non si può più limitare a mostrare il reale, come avveniva nel Neorealismo, perché mostrare non basta; non riesce più a far capire la realtà complessa della società del dopo-boom economico.
Il film di Scola schiera un parterre de roi dove insieme a Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefania Sandrelli, Stefano Satta Flores spicca Aldo Fabrizi, in una delle più belle interpretazioni della sua carriera.
Fabrizi con i personaggi di Don Pietro (Roma città aperta) e di Romolo Catenacci (C’eravamo tanto amati) rappresenta il mutamento dei tempi, tra il dopoguerra e gli anni 70.
Don Pietro è il simbolo della speranze di un futuro migliore, e non esita a subire il martirio, simbolicamente uguale a quello di Gesù, per il bene dell’umanità. Viceversa Romolo Catenacci rappresenta i 30 anni che sono passati dal 1945, le speranze che sono naufragate. Il corpaccione gargantuesco del palazzinaro/pescecane è l’emblema del disfacimento e dell’auto-indulgenza dell’Italia degli anni 70.
Essendo un film che segue una traiettoria di trent’anni, C’eravamo tanto amati ribadisce l’itinerario culinario che abbiamo visto nei film precedenti. Nelle sequenze iniziali, ambientate nell’immediato dopoguerra a Roma, Gassman, Manfredi e Satta Flores, mangiano tutti i giorni in un ristorante conosciuto come il “Re della mezza porzione”, che ci ricorda padre e figlio in Ladri di Biciclette.
Man mano che C’eravamo tanto amati va avanti, i pranzi diventano più ricchi ed abbondanti, fino ad arrivare a quella scena di gargantuesca opulenza dove Fabrizi, in uno dei suoi cantieri, presenzia all’arrivo di una gigantesca porchetta, depositata sul lungo tavolo allestito per il pranzo da una gru, mentre da alcuni altoparlanti vengono diffuse le note dell’inno di Mameli.
Dunque alla fine di questo gioco cine-culinario, il cibo non è più una necessità, ma assurge a simbolo, ad idolo da glorificare, a discapito di ideali sotterrati da trent’anni nei quali sono scoppiate laceranti contraddizioni sociali che hanno trasformato i sogni in incubi.
Per finire, dallo stesso film di Scola, un ricordo che abbraccia Fellini e altri attori “che abbiamo tanto amato”: la ricostruzione della famosa scena del bagno de La dolce vita, a Fontana di Trevi, ricostruita per l’occasione con i personaggi veri e inserito nella trama del film…
.
[La storia raccontata dai film (4). La fame nel cinema italiano (terza parte) – Fine]
Per la prima parte, leggi qui
Per la seconda parte, leggi qui
La scheda di cui al Commento di S. Russo dell’8 maggio:
S. TESTA. Aldo Cazzullo. L’Italia della fame. LT O. 4 maggio 2019
Sandro Russo
8 Maggio 2019 at 07:13
Gianni Sarro ha dedicato tre puntate della sua serie “La storia raccontata dai film” al modo in cui è stata rappresentata la fame nel cinema italiano del dopoguerra.
Assolutamente pertinente col tema, una delle ultime “schede” di Stefano Testa, che sempre pubblichiamo quando escono su LT Oggi. Questa di sabato scorso 4 maggio recensisce il saggio di Aldo Cazzullo: “Giuro che non avrò più fame”, edito da Mondadori (254 pagine).
Contiene numerose perle e richiami utili per chi coltiva la (desueta) virtù di ricordare chi siamo e da dove veniamo.
Il file .pdf della pagina da LT Oggi è allegato in fondo all’articolo di base