di Silverio Tomeo
L’isola come bene comune, l’emigrazione come diaspora, la comunità come responsabilità, la memoria come storia: propongo di mettere a tema queste declinazioni attorno alla necessità di ripensare l’isola. Non ha alcuna importanza che questo avvenga da vicino o da lontano, da dentro o da “fuori”, dalla presenza o dall’assenza. C’è la necessità di una riflessione di fondo oltre il passaggio elettorale di primavera, che ove rappresentasse l’ulteriore occasione mancata per il buongoverno locale, sarebbe solo una tappa ulteriore del declino dell’isola.
Il dibattito internazionale sui beni comuni (commons) è quanto mai attuale e decisivo. E non si tratta solo di teoria politica, giuridica o filosofica, ma anche delle buone pratiche dei movimenti partecipativi e costituenti, così come è stato per i referendum sull’acqua pubblica e contro l’opzione nucleare: acqua e salute sono stati intesi come beni comuni dalla maggioranza dei votanti. A Napoli hanno istituito un ‘Assessorato ai Beni Comuni’ e a gennaio si è tenuto un importante Forum per i beni comuni con una rete partecipativa di amministratori, movimenti, studiosi. A Roma con il teatro Valle occupato è partita una esperienza importante, con lo statuto della ‘Fondazione Teatro-bene comune’ scritto da Stefano Rodotà con Ugo Mattei e altri.
I beni comuni non sono il “bene comune”, concetto derivato da Tommaso D’Aquino e dalla scolastica medievale, il “bonum commune” che nell’età moderna si è secolarizzato nel concetto di “interesse generale”. Detto in breve: i beni comuni sia materiali che immateriali sono quanto deve essere o ridiventare comune al vivente e alle comunità locali, sono ad esempio l’acqua, l’aria, le foreste, il mare, la terra, la spiaggia, il paesaggio, e tra i beni immateriali il sapere, l’informazione, la cultura. Anche i diritti e il lavoro possono essere visti come beni comuni. L’ecosistema è un bene comune non legato alla singola nazionalità. Carlo Donolo, che con Franco Cassano fu tra i primi a parlarne in Italia, scrive: “I beni comuni sono un insieme di beni necessariamente condivisi. Sono beni in quanto permettono il dispiegarsi della vita sociale, la soluzione di problemi collettivi, la sussistenza dell’uomo nel suo rapporto con gli ecosistemi di cui è parte”. Il luogo dei beni comuni deve sfuggire dalla morsa della coppia privato-pubblico da cui viene spesso stritolato, per andare verso una costituzionalizzazione, anche a carattere sovra-nazionale. Il concetto di beni pubblici è importante, tutelato dalla nostra Costituzione, ma comunque riconducibile allo Stato, e quello di beni privati è iscritto e difeso nella moderna sovranità dello Stato-nazione. Da un articolo del 1968 di Garrett Hardin (“La tragedia dei beni comuni”) alla riflessione del Nobel per l’economia la statunitense Elinor Ostrom sul governo dei commons, si è aperto un notevole campo di studi. Ugo Mattei, giurista tra i redattori dei quesiti referendari sull’acqua pubblica, è l’autore di un fortunato libro-manifesto, “I beni comuni”, per Laterza. Da Stefano Rodotà al filosofo napoletano Roberto Esposito si ragiona sul potere costituente della difesa e della gestione partecipativa dei beni comuni, come resistenza al mercato che tutto inghiotte e privatizza, come alternativa strategica alla “teologia economica” imperante. Come dice Cassano è ancora più radicale nel Mezzogiorno d’Italia la necessità di una democrazia dei beni comuni, in una prospettiva euro-mediterranea, non certo neo-borbonica.
Il concetto di diaspora dovrebbe sostituire quello di emigrazione, nell’immaginario e nel linguaggio. C’è tutto un campo di ricerca aperto dai cultural studies, quello dei diaspora studies. La stessa grossa emigrazione italiana a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento è difficile assimilarla al concetto di emigrazione, per entità e dispersione è piuttosto una diaspora. Quando come a Ponza tuttora la quantità dei nativi che risiede altrove supera di gran lunga la popolazione stanziale, siamo di fronte a una diaspora e non a un piccolo villaggio di emigrazione. Se la diaspora migrante isolana dal Bronx a La Galite in Tunisia, dalle isole toscane alla Sardegna, ha offerto mirabili esempi di legame con l’origine e il commovente tentativo di riprodurre comunità, quella dispersione, anche in Italia e in Europa, nell’America Latina e in Canada, ha ormai i caratteri di una diaspora. Sarebbe interessante organizzare uno studio dell’emigrazione dall’isola a carattere di diaspora. Dall’“emigrazione riuscita” negli States, dai tempi della “chiamata in America”, per cui ancora adesso alcune famiglie sono quelle “degli americani”, alle residenze di servizio nel basso Lazio sino all’emigrazione di studio o esistenziale, c’è tutto un campo da esplorare. Con la frattura storica del Ventennio fascista, particolarmente sentita sull’isola non solo per la presenza del Confino, ma anche per la chiusura delle porte dell’emigrazione dopo la prima fase dei “primati della stirpe italica”, delle utili rimesse degli emigrati, dei Fasci all’estero, del “recupero spirituale” delle comunità italiane espatriate, arrivarono presto le politiche di rimpatrio di fronte alle tensioni con gli USA in vista delle alleanze di guerra, e già si erano avvertite le restrizioni a partire dall’Immigration Act del 1921 e dal riflesso della crisi del 1929. Sulla mitica emigrazione negli States mi permetto di ricordare il testo a più voci: “Verso l’America. L’emigrazione italiana e gli Stati uniti”, Donzelli, 2005.
La comunità isolana va intesa come aperta, porosa, democratica, solidale. E non come comunità identitaria, piccola patria di “sangue e suolo”, comunità organicista e chiusa. Il pensiero della comunità deve conservare il suo senso sull’isola, innanzitutto come responsabilità, governo e difesa dei beni comuni, e poi come tentativo di vivibilità in condizioni che vanno diventando sempre più estreme. L’interscambio della comunità residente con la diaspora, al di là dei residui legami familiari, e con gli aspetti migliori della stessa presenza del “turismo forestiero”, va improntata sulla valorizzazione dei beni comuni, dove anche la cultura di tradizione non è un orpello identitario folkloristico, ma l’elaborazione secolarizzata di un’autonomia culturale fatta di saperi e sapori, piuttosto che di poteri. Chi proclama in ogni momento l’amore per l’isola deve sempre comprovare nelle pratiche relazionali collettive e nell’azione pubblica che non si tratta di un transfert amoroso a carattere proprietario possessivo patologico, quindi distruttivo.
La memoria che diventa storia è quella che si cristallizza negli anni e negli studi, che si elabora con interpretazioni e documenti, che si emancipa dai suoi stessi punti di partenza e attraversa conflitti ed elaborazioni. E’ difficile pensare di fare storia dell’isola prescindendo dai lavori fondamentali di Silverio Corvisieri. Non si può certo regredire al localistico o inventarsi un’idea deculturalizzata di “isola dei vip”, di porto franco del Gran Tour estivo. Le storie di vita, le microstorie, le fonti orali, sono invece fondamentali. La memoria storica può e deve diventare essa stessa un bene comune.
Non si reagisce sulla base di interessi non generali e non comuni, per esempio, alle direttive dell’ONU e dell’ Unione Europea sulla pesca nel Mediterraneo, né all’istituzione di zone costiere di interesse comunitario, né alle altre norme a venire, ma riorganizzandosi come comunità democratica e gestendosi attivamente, con una svolta culturale all’altezza di una conversione coraggiosa.
L’isola della difesa e della riappropriazione sociale dei beni comuni va vista essa stessa come un bene comune e senza l’attivazione civica della comunità residente è impossibile che questo avvenga.
Silverio Tomeo