di Sandro Russo
Per altre “Passioni botaniche” (prima puntata), leggi qui
La fava (Vicia faba) ha dei fiori molto belli e profumati
Si può ben dire che al di là delle differenze: culturali e di censo, politiche e di vedute sul modo di vivere meglio sull’isola – come da qualche tempo su questo sito andiamo documentando – i ponzesi sono accomunati anche da affinità sostanziali. Di gusto e predilezioni comuni, quasi geneticamente trasmesse.
Mettere l’accento sulle similarità piuttosto che sulle differenze dipende dalla visione del mondo di ciascuno, allo stesso modo di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.
In questo sito – e anche attraverso la botanica isolana! – vogliamo dichiaratamente privilegiare le affinità…
Perché… con lo stesso significato di ‘appartenenza’ con cui qualche mese fa prima veniva portato il mazzetto di fresie, dissimulato o esibito, dai ponzesi che sbarcano sul ‘continente’ si trova, in un’altra stagione – a guardar bene nei bagagli che si portano dietro – un’altra presenza immancabile: una borsa di fave fresche.
Da dove nasce questa ‘divorante’ passione per le fave, condivisa da tutti i ponzesi…
Forse da tempi più grami, quando questo legume era intensivamente coltivato, insieme ad altri del resto: lummiccule, pesiéll’, cìcere, cicerchie e… culetuòtn’! Come ci raccontava Sandro Vitello:
“Il piatto più comune nelle famiglie più umili dell’isola di Ponza era costituito dai legumi; fave essenzialmente. Queste venivano prodotte, insieme ai piselli, lenticchie, ceci, cicerchie, “ culetuòtn’ ” (vicia sativa var. ‘macrocarpa’ – N.d R.); una sorta di piselli neri e duri, passati agli animali appena è arrivato un po’ di benessere).
Vicia sativa (i culetuòtene)
Le fave (Vicia faba) venivano coltivate sulle terrazze che coprivano le colline di Ponza, ma venivano anche acquistate sulla costa. In quasi tutte la famiglie c’era un sacco di 40/50 chili di fave come scorta. Le fave venivano cucinate quasi sempre con le rape o le cipolle, a volte con le patate bollite, tre o quattro volte la settimana” [Su questo stesso sito, di Alessandro Vitiello (Sandro), leggi qui].
Le fave, allora… Che entrarono a far parte della dieta Mediterranea in tempi antichissimi, insieme agli altri legumi nominati sopra (le prove in tal senso risalgono a 6000 anni prima di Cristo).
Importanti, oltre che per l’alimentazione, anche – come tutte le leguminose – per arricchire il terreno di azoto. Queste piante infatti, come poche altre nel regno vegetale, hanno nelle radici, in forma di tubercoli, colonie di batteri fissatori di azoto dall’aria (Rhizobium leguminosarum). Ben prima di conoscere l’esistenza dei batteri, gli antichi romani già sfuttavano questa caratteristica delle leguminose di rendere più fertile il terreno, applicando la tecnica cosiddetta del ‘sovescio’, che consiste nel far vegetare le fave fino a prima della fioritura e poi interrarle. Nelle campagne laziali le fave sono comunemente coltivate negli interfilari tra le viti; quindi, prima della fioritura, un filare sì e uno no, ci si passa sopra con il trattore, per sfruttare al massimo l’azoto nelle radici. Dai filari mantenuti si ottengono invece i legumi per il consumo domestico. Le piante, alla fine del ciclo, vengono anch’esse interrate, ma lì l’azoto delle radici è stato in gran parte organicato nel legume, in forma di proteine vegetali.
Le fave sono molto suscettibili ai parassiti. In agricoltura biologica si applica l’antica tradizione di seminare sempre nell’orto delle fave che, oltre ad arricchire il terreno di azoto, attirerebbero tutti i parassiti, sì da proteggere gli altri ortaggi.
Le principali malattie delle fave sono:
Gli afidi neri (Aphis fabae)
La Botrite (Bothrytis fabae) o malattia delle macchie color cioccolato
e l’Antracnosi (Ascochyta fabae) che determina sui baccelli delle tacche necrotiche e depresse, nerastre, che si estendono ai semi in formazione.
Anche il Tonchio – Bruchus quadrimaculatus più noto a Ponza come: u’ pappece – è un’insidia per le fave: gli adulti depongono le uova sui giovani baccelli; le larve neonate forano i carpelli per raggiungere i semi, all’interno dei quali si sviluppano scavando gallerie; al termine del ciclo gli adulti sfarfallano dai semi perforandoli dall’interno verso l’esterno.
Infine l’Orobanche (Orobanche crenata – Fam. Orobanchaceae), una pianta parassita priva sia di foglie verdi che di radici, che infigge nelle radici della fava i suoi austori con i quali succhia la linfa elaborata dalla leguminose.
La pianta parassita Orobanche crenata
Da conoscere infine, tra gli aspetti medici legati alle fave, la malattia genetica denominata ‘favismo’, che ha una certa prevalenza regionale (al sud maggiore che al Nord; in Sardegna e nel Crotonese è molto diffusa); verosimilmente in rapporto – da studi di genetica molecolare – con gli insediamenti greci in quelle regioni.
Il ‘favismo’ consiste in disturbi che possono essere gravi, o anche mortali, scatenati dall’ingestione di fave, ma anche dal semplice contatto o odore, o dal passaggio attraverso un campo di fave. Si tratta di un deficit enzimatico – carenza di glucosio-6-fosfato-deidrogenasi – che determina sofferenza e poi rottura dei globuli rossi (emolisi) con una reazione piuttosto rapida: dolori addominali, urine scure e forte pallore. Oltre che dalle fave, nei soggetti con il deficit, i sintomi possono essere scatenati da farmaci (come l’aspirina e il chinino).
È famoso il divieto di Pitagora e dei suoi seguaci di cibarsi di fave; era verosimilmente una norma igienica volta a preservare la popolazione di quelle zone della Magna Grecia dagli effetti nefasti del vegetale. Tutti sanno che Pitagora preferì morire per mano di un soldato piuttosto che fuggire. La leggenda suggerisce che non fuggì perché avrebbe dovuto attraversare un campo di fave.
In Sardegna esiste il divieto alla coltivazione delle fave nelle vicinanze dei centri abitati; norma che se fosse estesa a Ponza getterebbe nella costernazione un’intera popolazione.
Per fortuna da noi non c’è un simile divieto e possiamo continuare a goderci l’amato legume…
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[Passioni botaniche ponzesi. (2). Continua]